Ripartire da Foggia, un passato che può diventare futuro

Se i foggiani conoscessero meglio la loro storia, forse ci sarebbe ancora il tempo per una nuova rinascita sociale. Davanti ai nostri occhi vediamo oggi le macerie di una città commissariata, divisa tra l’afasia di un’indignazione popolare repressa e la miseria delle vicende, narrate dalle cronache giudiziarie, sulle presunte “mazzette” a Palazzo di città. Eppure se la gran parte dei foggiani sapesse quale fu lo snodo storico della città più a Nord della Puglia, forse saprebbe prendere le distanze da un’attualità in agguato sempre pronta a ricordarci gli ultimi posti nelle classifiche e l’escalation criminale. Siamo la provincia che negli anni Trenta aveva un gran futuro davanti: i più bei palazzi di Foggia nascono in quell’epoca, la bonifica del Tavoliere viene decisa da un governo centrale (fascista) che intuisce le grandi potenzialità dell’agricoltura in questo territorio. Intorno alle grandi famiglie latifondiste si odono i primi vagiti una “società borghese”. Un destino – beffardo – tratteggiato con dovizia di particolari poi interrotto dalla guerra, neanche un secolo fa. Se ne parla poco però e anche la scuola non aiuta a riannodare i fili con quel passato. Di quel vuoto storico e sociale sono oggi testimonianza le borgate rurali sorte prima della guerra a mo’ di corolla intorno alla città. Borgate che nelle intenzioni avrebbero dovuto collegarsi ad essa, rimaste invece sospese a mezz’aria come puntualizza nel saggio “Il tramonto dell’urbano” la sociologa Fiammetta Fanizza, docente dell’università di Foggia, illuminante e originale spaccato di storia patria che ricostruisce le ragioni di quel «vuoto al centro» e il processo di ricucitura fra campagna e città che non si concretizzò.
Le borgate dunque concepite come un corpo estraneo di un processo economico e sociale che nessuno mai in seguito provò a recuperare. Per questo oggi conoscere la storia di questo territorio sarebbe importante, perchè permetterebbe a molti foggiani di capire le ragioni di un declino. Sarebbe utile rinfrescare la memoria (di chi ne ha voglia, naturalmente) perché potrebbe essere quello il modo per restituire un po’ più di senso di appartenenza a una popolazione che sembra averlo smarrito: e per rendersene conto basterebbe osservare lo stato pietoso in cui sono ridotti i cassonetti dei rifiuti nelle ore notturne, una banalità in fondo che però potrebbe consentire di misurare la distanza che c’è tra cittadino e il luogo in cui vive. Sono forse (anche) queste le ragioni per cui da oltre dieci anni la città finisce sistematicamente in coda (con tutta la sua provincia) alle classifiche sulla qualità della vita. Molti foggiani stenterebbero oggi a riconoscere la propria città nel disegno che per lunghi tratti era stato tratteggiato dal governo fascista agli inizi del secolo scorso su una dimensione di riconosciuta “capitale agricola” del Mezzogiorno, mission che si andava delineando (e che solo in parte si è realizzata) dopo le grandi opere di recupero di quella enorme “palude” chiamata Tavoliere. Tratti distintivi di quel rinascimento sono ancor oggi riconoscibili in alcuni dei più grandi palazzi storici e monumentali dal pregio architettonico nel centro cittadino: la Casa Comunale, il palazzo della Prefettura, gli Uffici statali, Palazzo degli Studi, il pronao della villa comunale che fu ricostruito dopo la seconda guerra mondiale. Fu arruolato il genio di Oberty, Brasini, Piacentini, Concezio Petrucci che progettò la borgata di Segezia (nel titolo), ovvero alcune delle “Archistar” dell’epoca, per ricostruire su basi nuove l’impalcatura del Regno che già in epoca borbonica aveva conosciuto i suoi fasti con le nozze nella Regia Dogana (oggi Palazzo Dogana) tra il principe ereditario Francesco I e Maria Clementina d’Austria nel 1797.
L’ultima guerra (1939-45) interruppe un processo che andava delineandosi attraverso quei simboli di una maestà rurale e urbanistico-monumentale in cui a Foggia trovava all’epoca una delle massime espressioni, con lo studio del primo Piano regolatore generale mai varato in altre città del paese. Il Dopoguerra fu impostato su basi nuove dai governi a guida democristiana, la Foggia capitale rurale che avrebbe potuto svilupparsi non solo come centro di produzione agricola fu pervasa dalla corsa alla ricostruzione e al mattone, fenomeno non estraneo a quasi tutte le città italiane degli anni ’50 e seguenti. A Foggia tuttavia si subì particolarmente questo cambio di passo. Per capire meglio le conseguenze di un mancato processo di immedesimazione della città nella sua campagna (e viceversa) l’indagine della prof. Fanizza sulle borgate mette in luce gli aspetti di un abbandono, peraltro ricambiato dagli attuali residenti nelle realtà rurali di Segezia, Tavernola, La Rocca, Cervaro, Arpinova, Incoronata. «Nelle borgate ci si sposta dai monti Dauni e dal Gargano per cercare un lavoro. C’è un grande investimento sullo sviluppo rurale di queste realtà. Un processo di spostamento delle popolazioni che però non può essere organizzato nel periodo post-bellico. Avviene così la rottura dei legami di appartenenza tra borgate e città. Essere cittadino di Foggia per gli abitanti delle borgate è indifferente», l’analisi della sociologa.
Uno sviluppo interrotto in una città sospesa, la doppia cambiale che ancor oggi pesa sul rilancio della città. Così la vocazione agricola è passata per decenni in secondo piano rispetto alla ricostruzione post-bellica che a Foggia ha conosciuto un’escalation fino agli anni ’90 e condizionato, oltre che il mercato abitativo, l’economia cittadina ed al quale si deve anche la nascita di fenomeni distorsivi come il racket delle estorsioni. Ripartire dalla conoscenza dunque può diventare un modo per voltare pagina, in questi tempi di silenzi e riflessioni per la politica locale e i cittadini. Un piccolo suggerimento anche per gli affezionati Lettori di questo blog.

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