Al pronto soccorso come in curva allo stadio, dopotutto sfogarsi è quel che ci rimane… E’ agghiacciante ascoltare alcune ricostruzioni dei medici, accorgersi di come sia stato possibile arrivare a questo punto: vendicarsi per i rovesci della vita con chi ti sta prestando assistenza. Come quando si urla la rabbia e qualcosa in più, contro i giocatori in campo dopo una sconfitta. Con qualche differenza però: ascoltiamo urla tribali vomitate allo stadio anche per motivi di giubilo, ad esempio quando si festeggia la vittoria di una partita. Al pronto soccorso come in corsia questo però non accade: lì sono soltanto pugni e calci anche solo per un moto di stizza contro il medico, l’infermiere, l’operatore socio sanitario. E ci vuol poco a metter su una squadraccia di energumeni che, da Foggia a Pescara (i casi più recenti), invadono un reparto di degenza per fini punitivi.
«Eravamo gli eroi del Covid due anni fa, oggi ci detestano», dice con disarmante realismo il prof. Gaetano Serviddio. Il primario di Epatologia ai Riuniti ha voluto differenziarsi dalla selva di parole ascoltate in questi giorni, puntando il dito, senza inutili ipocrisie, anche contro politica e magistratura: «Chi non crede nella politica che non propone mai soluzioni, o nella giustizia che arriva troppo lentamente, se la prende con chi quella solidarietà rappresenta: gente disperata che aspetta diciotto ore sulla sedia del Pronto soccorso e che finisce per prendersela proprio con coloro che li accoglie e li cura. Se siamo arrivati a questo punto – aggiunge – lo dobbiamo anche a una rappresentazione alterata della classe medica: fatta di giochi di potere, favoritismi e strane connivenze con la classe politica e amministrativa. Occorre rendersi conto che il diritto è l’assistenza non la guarigione».
La gente è frastornata, sfiduciata. Perciò giù botte ai medici come a chiunque osi mettersi davanti al proprio orizzonte. Il tasso di litigiosità ormai diffuso colpisce a tutti i livelli. Ora anche negli ospedali che forse hanno perso nell’immaginario collettivo quello scudo protettivo dai tempi del Covid. Quattro anni dopo l’ospedale non è più un bene rifugio, anzi la discesa da un certo rango a volte può diventare più veloce. «La medicina è prossimità, vicinanza, soprattutto assistenza», ammonisce Serviddio e la sensazione stavolta è che parole in altri tempi ritenute scontate siano diventate necessarie. Come quando il direttore generale dei Riuniti, Giuseppe Pasqualone, giusto qualche giorno fa, ripeteva a ogni intervista: «Il policlinico di Foggia è un grande ospedale, facciamo assistenza di alta qualità».
Il rischio che una disistima professionale si insinui ora anche tra il personale è più concreto, non a caso la presa in carico del problema da parte dell’università di Foggia sottolinea un timore: che queste vicende possano incidere sul morale dei 400 specializzandi, buona parte dei quali già con la valigia pronta e con la domanda di concorso compilata per altre aziende sanitarie. L’incubo di un graduale spopolamento della classe medica dal policlinico di Foggia era già forte prima che il caso delle aggressioni scoppiasse, ci riferiamo al tempo in cui andavano deserti gli avvisi pubblici per medici di anestesia e pronto soccorso.
Ora andrebbe rimessa subito la barra al centro e ragionare su una forte campagna di promozione del policlinico Riuniti: a beneficio dei pazienti sfiduciati e arrabbiati e degli stessi medici, collocabili curiosamente sullo stesso piano.
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Il prof. Gaetano Serviddio intervistato durante la mobilitazione del medici foggiani