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Sotto il cappello del barone rosso, niente

Quale valore attribuire al potere di deterrenza degli Usa, se poi Trump cambia idea dopo 10 minuti? Guardare le facce del vicepresidente Vance e del segretario di Stato Marco Rubio, può essere più istruttivo di cento, mille parole: alle spalle del tycoon, nella Situation room, mentre il presidente annuncia agli americani di aver appena bombardato l’Iran. Le perplessità del cerchio magico del presidente trasudano soprattutto in tipi come Rubio che ai tempi in cui era un semplice senatore della Florida voleva «sotterrare l’Iran» e che appena nello scorso febbraio rassicurava il capo del governo israeliano Netanyahu: «l’Iran non avrà mai l’atomica».

Ma sono i tempi della diplomazia che non tornano più e ora scuotono (finalmente) l’America. Le facce stranite di Rubio e Vance trovano riscontro nelle richieste di impeachment dell’opposizione democratica e il movimento Maga adesso sconfessa il suo mentore. Le «due settimane» per pensarci se bombardare o meno di Trump, si sono ridotte a due giorni ma ora sono da valutare i rischi del fattore sorpresa che spingono gli ayatollah tra le braccia di Putin. La muscolosa America si ritrova sola, lei al fianco di Israele e non il contrario. Mentre il resto del mondo s’interroga sulle vere intenzioni di questo conflitto teleguidato dai micidiali bombardieri. Ma la sconfitta più bruciante di Trump è un’altra: adesso sono le decisioni di Netanyahu a contare di più. 

E’ la linea del tycoon, zigzagante e spesso in contraddizione con le sue stesse dichiarazioni del giorno prima, il vero pericolo per la stabilità mondiale. Al punto da trasformare la disastrata politica del Cremlino da tre anni in qua sull’Ucraina, i voltafaccia della Cina di Xi-Jinping sulle più gravi turbolenze regionali (Taiwan, conflitto tra le due Coree e l’atomica in possesso dell’esercito di Kim) esempi di coerenza e di responsabile lungimiranza. 

Sotto il cappello rosso del Maga (make American Great again) non c’è niente: il cowboy di Washington conferma piuttosto le amnesie e i rovinosi cambi d’umore che ne avevano già segnato il primo mandato (2016-2020) e sul quale l’elettorato americano non è riuscito a fare sintesi, a cominciare proprio dal ritiro degli Usa di Trump dal trattato di non proliferazione nucleare (firmato da Obama) e che l’Iran stava eseguendo alla lettera.    

Trump che contestava in campagna elettorale i guerrafondai, ne è oggi il peggiore epigono con il suo “martello di mezzanotte” azionato senza peraltro consultare il Congresso. Se la crisi con l’Iran non sarà il punto di non ritorno in grado di destabilizzare il Medio Oriente, lo si dovrà al gioco di sponda delle «canaglie» locali (Arabia Saudita, Turchia, la stessa Russia) e alla negoziazione degli ayatollah in piena transizione politica dopo l’oblio in cui si è cacciato la guida suprema Kamenei. 

Ma dopo questo scivolone Trump andrebbe messo in condizione di non nuocere. Come? Prendere esempio dall’economia e dal gran rifiuto della Federal Reserve di obbedire ai richiami e agli insulti del barone rosso.

 

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