Le immagini molto spesso assumono significati più espliciti delle parole. A volte confondono, distorcono il quadro di riferimento. Ma indicano il punto di arrivo. Come le foto della pubblicità sulle passerelle dell’alta moda, nel contesto di una pagina sui misfatti della guerra in Ucraina. Basta sfogliare in questi giorni un quotidiano di quelli che vanno per la maggiore e che seguono con dovizia di particolari le atrocità di un conflitto sempre più cruento. I volti di modelle e modelli sono conturbanti, riflettono lo spaccato di un mondo – occidentale – lontano anni luce dalle foto appena qualche modulo più in alto. Garantiscono il lettore sul pericolo lontano, ci suggeriscono l’idea che non è quello di sopra il mondo che ci riguarda. La guerra nel cuore dell’Europa, a meno di due giorni d’auto dalle nostre postazioni, probabilmente ci spaventerebbe davvero solo se i nostri agi venissero seriamente a mancare. La pubblicità dell’alta moda riflette le vetrine di via Montenapoleone, la strada del lusso milanese. I disastri di Kharkiv in apertura sembrano quasi una provocazione impertinente, perché l’occhio ci guida ad andare sulle foto patinate a piè di pagina. Dalla sovrapposizione delle immagini, l’inconscio ci riconduce nella nostra abituale oasi del pensiero: fatti loro questa guerra di cosa dobbiamo preoccuparci? Non c’è trucco, non c’è inganno oltre già quanto sappiamo: in guerra (e non soltanto in quella) il vero e il falso sono facce della stessa medaglia, un po’ come la disinformazione dei generali, dai Romani a Napoleone fino agli ultimi giochi di prestigio dell’«Operazione speciale» di Putin.
Eppure ci siamo già dentro in questa guerra, assai temute dagli analisti internazionali le sanzioni economiche inflitte alla Russia che avranno un effetto boomerang in Occidente ben più dell’aumento del prezzo della benzina. Ma come facciamo a crederci, con la settimana dell’alta moda che ci scorre sotto gli occhi e l’ennesima eliminazione della Juventus dalla Champion’s League? Ci dev’essere dell’altro dietro i corpi delle vittime di Mariupol, le facce sfigurate dei rifugiati che varcano il confine della Polonia e invocano aiuto. Se siamo arrivati a credere (non tutti, per fortuna) che i morti fotografati vicino al trolley preparato per la fuga, siano controfigure dell’esercito ucraino possiamo anche immaginare che tutto il resto sia un gigantesco Truman show. Questa trasfigurazione della realtà conosce l’apoteosi delle tesi ardite nei talk-show, è in particolare la propaganda pro-Putin a insinuarsi docile tra le pieghe del dibattito e che sta facendosi largo anche in alcune nostre università, vero prof. Orsini?
Ma quanto conta oggi l’immagine per smontare le tesi più balzane? Con tanti inviati sul posto non sarebbe forse più giusto affidarsi a ciò che si vede intorno per trasmettere un’idea inequivocabile di questa guerra? Qualche indizio però ce l’abbiamo sui risvolti di un conflitto che può segnare la traccia della nostra futura modernità. Ad esempio l’evoluzione del rapporto-uomo-macchina: il video del drone che rincorre minaccioso il soldato russo (ma l’obiettivo non è lui) dovrebbe obbligarci a pensare alle perversioni di un rapporto ormai rovesciato. Il drone che domina l’uomo e decide se abbatterlo è il risultato di una programmazione decisa dagli uomini stessi: ma l’immagine plastica della fuga ci consegna l’idea di uno stravolgimento del pensiero-azione epocale, in cui è il robot a dominare la scena. E che, una volta innescato, può far da se: gli algoritmi non lo faranno tornare sui suoi passi.