La «Quarta mafia» è il racconto criminale degli ultimi quarant’anni in questa provincia, dal 2017 c’è anche un titolo. Il ministro Matteo Piantedosi, a Foggia il 3 febbraio, l’ha associata per la sua ferocia a quella dei Corleonesi suscitando però qualche dubbio. Forse sarebbe il caso di tenere il piede più sul freno con certe definizioni. Il rischio di passare dalla sottovalutazione per almeno due decenni proprio da parte dalle istituzioni («si ammazzano tra loro») all’iperbole anche un po’ manichea di questi ultimi tempi, finirebbe per mettere nell’angolo un territorio già fin troppo riconoscibile dal timbro mafioso. L’accostamento alla ferocia di Cosa nostra (forse solo per la ferocia in effetti l’unico tratto assimilabile) sembra in un tale contesto un superficiale esercizio di gigantismo, lo dicono i numeri: a Foggia e in provincia in sette guerre di mafia dal 1986 a oggi si contano 740 morti ammazzati (ma solo 120 ascrivibili alla coltura mafiosa), nella Palermo delle stragi e degli attentati a Falcone e Borsellino ce ne furono un migliaio dagli anni Ottanta ai primi del Novanta. Quella criminalità mafiosa non esitava a uccidere i simboli dell’antimafia (il giudice Rocco Chinnici, il presidente della Regione Piersanti Mattarella) per affermare il suo predominio, qui l’escalation assassina ha colpito esponenti della società civile (il costruttore Giovanni Panunzio), ma sostanzialmente concentrando il suo terrore in un livello intermedio di guerra tra bande: non a caso la strage del Bacardi (’86) e quella di San Marco in Lamis (2017), i due apici della ferocia esibita, avevano come obiettivo l’eliminazione di concorrenti scomodi. La “Quarta mafia” allora definita così non solo in ordine temporale, ma come misura grandezza: giusto per amor di verità.